TWO WEEKS TO GO

Si è tenuto il 22 ottobre l’ultimo dei tre dibattiti tra  Barack Obama e Mitt Romney.  Incaricati al ruolo di guida della prima potenza geopolitica mondiale, a quali interessi dovranno rispondere i due candidati per la poltrona della Casa Bianca?

 

Nelle ore successive all’ultimo dibattito tra i due candidati alla Casa Bianca tenutosi in Florida lo scorso 22 ottobre, Obama è dato dalle principali agenzie informative come sicuro vincitore. Il pronostico elettorale vede in testa il presidente in carica, forte peraltro delle preferenze dell’Ohio, Stato che ha sempre cataliizzato il paniere di elettori a favore del presidente eletto. I commenti post dibattito sono tuttavia discordanti. Se a far pendere l’ago della bilancia verso Obama è stata la sua capacità di portare avanti una retorica affilata e pungente, ad entrambi viene recriminata l’assenza di un programma effettivo in termini di politica estera. Sebbene sia comprensibile che a una settimana dal voto la priorità sia data ai temi di politica interna, come l’incremento dell’occupazione, o alla spesa pubblica, ha fatto notizia il mancato riferimento all’Europa o a Paesi come Giappone o India. Tra i temi principalmente dibattuti durante i 90 minuti di faccia a faccia, il programma nucleare dell’Iran e la questione d’Israele, capolista tra i Paesi più citati. Questioni calde come il Medioriente, con l’uccisione dell’ambasciatore americano in terra libica, e i conflitti commerciali con la Cina sono infatti stati abilmente schivati da entrambi i candidati con una serie di perifrasi che hanno decretato un nulla di fatto di entrambi sulle questioni più scomode di politica estera. Nel caso poi della potenza cinese, la propensione dei due avversari nell’abbassare l’ascia di guerra si rivela tutt’altro che profetica. L’interdipendenza è infatti diventata ancora più forte da quando gli Stati Uniti sono diventati i principali partner commerciali della Cina, come confermato dalla spike di settembre nelle esportazioni verso il Nuovo Continente rispetto a quelle dirette verso il Vecchio.  Il dibattito ha tuttavia visto come protagonista centrale l’economia con Romney nel ruolo di mattatore. Abile nel riconoscere all’avversario indubbi meriti geopolitici, forte del sostegno delle principali lobby a stelle e strisce, l’ex governatore del Massachusetts strizza l’occhio all’industria del paese con particolare attenzione a quella automobilistica. Come riportato dagli analisti di Bloomberg, giocarsi la carta del salvataggio del settore è d’obbligo per ottenere i favori dell’ambito swing state dell’Ohio, in prima fila nell’indotto all’industria dell’automobile. Ma a quali centri di potere dovranno in definitiva fare riferimento i due candidati? Il sistema elettorale statunitense prevede infatti un sistema legalizzato di finanziamenti privati che consente tanto al singolo cittadino quanto agli investitori istituzionali di sostenere uno o entrambi i candidati.

 

LA LISTA DEMOCRATICA

Tra i grandi contribuenti sono rari i casi di finanziamento a direzione unica. Microsoft destina solo il 70% dei 2 milioni spesi per la campagna presidenziale al democratico Obama, sostenuto apertamente dal proprio fondatore, mentre il resto è lasciato ai repubblicani. Il colosso tecnologico figura comunque tra i principali sostenitori del presidente in carica. La lista dei contribuenti è capeggiata tuttavia dagli stessi cittadini seguiti a ruota da Google, mentre gli istituti universitari più blasonati degli Stati Uniti compongono buona parte delle fila rimanenti. Due i nomi legati alla tecnologia, quello di Microsoft e di IBM, settore che nella sua totalità strizza l’occhio alla campagna di Barack Obama. Se la lista dei contribuenti sembra contenere i nomi principalmente toccati dalle riforme del presidente, come quella scolastica, la Race To The Top, i grandi assenti sembrano essere i protagonisti dell’health care sebbene le assicurazioni sanitarie siano state particolarmente agevolate dal relativo programma del presidente. Volendo procedere per settori, oltre a quello tecnologico, l’industria delle comunicazioni e il comparto del consumo discrezionale si dicono a favore dell’ala democratica. Tuttavia il caldo settore Automotive si schiera con i repubblicani, così come le società più generose del segmento sanitario.

LA LISTA REPUBBLICANA

Figlio di Wall Street, il conservatore Mitt Romney conta invece sui top player dell’industria finanziaria. Morgan Stanley e JP Morgan salgono sul podio nella lista dei principali contribuenti della right wing, capeggiata da Goldman Sachs, maggior contribuente di Obama nella scorsa campagna presidenziale. L’intera industria, con il segmento Asset Management e Banking in prima fila, sostiene l’avversario del presidente uscente nella corsa alla Casa Bianca. Ma non solo di finanza si nutre il portafoglio di Romney. Il comparto industriale, quello delle materie prime ed Oil&Gas mostrano una preferenza netta per l’ex AD di Bain&Company. La politica economica aggressiva del candidato cita infatti tra le priorità una manovra di deregulation rivolta alle imprese per incentivare la ripresa.

Alla luce dell’osservazione dei differenti schieramenti, in controtendenza con lo spirito che sembrerebbe guidare la maggior parte dei cittadini privati americani, i protagonisti delle piazze finanziarie a stelle strisce si augurano la vittoria del candidato repubblicano. Come rilasciato da una nota di alcuni portavoce di Goldman Sachs, il rallentamento dell’economia americana sarebbe da imputare alla crescita dell’incertezza politica creata dal presidente uscente. Gli analisti infatti, a fronte dei buoni dati sul mercato di lavoro di settembre si attendono almeno fino a metà 2013 una crescita inferiore al potenziale. Tuttavia ad avere in mano l’assetto finanziario del paese ancora una volta è la FED, capitanata da Bernanke, motivo per il quale sembrerebbero essere stati argomento tabù del faccia a faccia, Quantitative Easing e Fiscal Cliff.

I GRANDI ASSENTI DEL DIBATTITO: PAROLA A BERNANKE

Svanito l’effetto del Quantitative Easing 3, i cui rumors prima dell’annuncio lo scorso settembre avevano ammortizzato la brutta estate dei listini azionari, l’S&P 500 comincia a cedere il passo ai deludenti risultati delle trimestrali, portandosi dietro l’intero comparto commodities, WTI incluso.  D’altra parte Bernanke rimane fiducioso su un aumento dei consumi, in particolare della vendita di abitazioni, viste le manovre volte ad un continuo raffreddamento dei tassi sui mutui.  Il dollaro continua tuttavia a riprendere quota, con un cambio sull’euro in discesa a 1,2969. A fronte delle difficoltà dell’economia a stelle e strisce il rinnovato allarme sui bond spagnoli ha riportato l’attenzione su valute ritenute rifugio e  investimenti low risk come mostra la correzione al ribasso dei rendimenti sul Treasury a due anni, ora a quota 0,8816%. Oltre alle conseguenze della crisi nell’area Euro, l’altra grande assente è stata la proposta di una soluzione alternativa al Fiscal Cliff previsto entro la fine dell’anno. Il nuovo Congresso sarà infatti chiamato a individuare un programma successivo alla scadenza dei tagli fiscali introdotti da George Bush, ed estesi da Obama. Concentrandosi principalmente sui tagli più o meno duri al Pentagono infatti, più che mostrare un’alternativa al taglio dei sussidi, i due candidati, non hanno fatto altro che giocarsi sul campo i voti di un altro swing state come la Virginia, con alta densità di  leve militari e impiegati nel servizio di difesa. La manovra, che potrebbe essere operativa già dal prossimo 2 gennaio, secondo gli analisti determinerà un downgrade del rating statunitense, finora effettuato unicamente da Standard & Poor’s , nonchè gravi ripercussioni sull’intero sistema mondiale.