REAZIONE A CATENA

Dalle prime proteste di piazza alla repressione sanguinosa, ora la Siria fa paura al fragile scacchiere mondiale. Quali gli effetti sui mercati finanziari.

 

Secondo i sondaggi, sarebbero meno della metà gli elettori statunitensi favorevoli ad un intervento militare delle forze armate americane in Siria, a due anni dall’inizio delle prime proteste di piazza e delle sanguinose repressioni da parte del regime di Assad. Ma l’appoggio ricevuto dai repubblicani, in attesa che il Congresso dia il via libera all’operazione nonostante la richiesta di prove inconfutabili da parte delle Nazioni Unite dell’utilizzo di armi chimiche contro i “ribelli” jihadisti, casus belli secondo le dichiarazioni fatte dal Segretario di Stato John Kerry, accresce i timori di un conflitto allargato di portata mondiale. Anche se la minaccia a stelle e strisce si rivelasse uno sparo a salve, numerosi sono già gli effetti sul sistema economico, come il ripido incremento dei prezzi dei prodotti energetici quali petrolio e gas ma anche dei metalli preziosi come l’oro, da sempre bene rifugio in fasi di instabilità economica e timori inflazionistici.

PREZZI IN AUMENTO

L’incremento dei prezzi dell’energia è stato il primo segnale del campo minato in cui le varie forze geopolitiche in campo stanno mostrando le loro carte. Benchè la Siria non rappresenti di per sé una pedina fondamentale nella produzione petrolifera ( lo 0,1% delle riserve mondiali secondo BP Statistical Review of World Energy, dati riferiti all’anno passato) le possibili ripercussioni sui paesi limitrofi, tra i maggiori produttori di oro nero, come Iran, Libia, Qatar e Kuwait hanno già mandato in fibrillazione le quotazioni del greggio. La potenziale chiusura dello stretto di Hormuz, da dove transita oltre un terzo della produzione mondiale giornaliera, da parte dell’Iran, già a fine 2011 era stato un driver fondamentale nella spinta al rialzo dei prezzi petroliferi. Il Brent Crude Oil, con un valore front month pari a 115,35 dollari al barile, ha così chiuso l’ultima ottava con un saldo positivo pari al 3,2% rispetto all’1,6% del WTI, raggiungendo un picco lo scorso 28 agosto a quota 117,27 $/barrel. La speculazione dovuta al conflitto siriano, non è tuttavia l’unico driver dell’impennata dei prezzi che ha avuto immediate ripercussioni sui prodotti petroliferi per i consumatori. Giocano infatti un ruolo chiave anche il possibile danneggiamento alle linee di oleodotti che collegano Kirkuk (Iraq) e il porto siriano di Banias, nonché il crollo del 70% delle esportazioni di petrolio in Libia. Benchè i prezzi petroliferi rappresentino un gauge indicativo delle attese sul livello d’inflazione, l’Agenzia Internazionale per l’Energia non ha ancora annunciato alcun intervento per il rilascio di scorte strategiche lasciando quindi correggere al ribasso le aspettative relative al tasso d’interesse reale. A gravare sulle tasche dei consumatori, soprattutto statunitensi, anche la spike del contratto scadenza gennaio dell’ Heating Oil quotato sul NYMEX, con un rialzo di circa il 2% lungo l’ultima ottava. L’incremento dei prezzi ha però riguardato anche l’oro. Il lingotto, dopo essere volato intraday a 1433,83 dollari/oncia nella giornata del 28 agosto, si è attestato a 1402 $, in rialzo da inizio ottava sulla prospettiva di un attacco militare imminente.

IL DEDALO AMERICANO

Numerosi gli interessi geopolitici per un intervento delle forze statunitensi nel Medioriente. La partita ha come scopo infatti quello di chiarire i ruoli di Russia, Cina e Stati Uniti all’interno di uno scacchiere chiave per la produzione energetica globale. Il sostegno americano militare e tecnologico al mal tollerato Israele, diventa ora un pretesto di minacce di uso di armi chimiche da parte dei paesi della regione, con ripercussioni potenzialmente incalcolabili. Volendo tenerci alla larga dalla sottile linea che divide la diplomazia dall’intervento a mano armata, dal punto di vista prettamente economico, il governo americano si trova impigliato in una intricata matassa. Due le micce che potrebbero far esplodere il precario equilibrio delle finanze a stelle e strisce. In primis il continuo incremento dei tassi d’interesse sulla parte lunga della curva. Rispetto al corrente 2,896% riconosciuto da un Treasury decennale, il tasso ha osservato un incremento di circa 1,3 punti percentuali rispetto allo scorso febbraio, implicando una perdita di circa il 10% dei prezzi del bond. La ragione di tale aumento è da imputare alla Federal Reserve che, grazie al suo programma di Quantitative Easing, ha mantenuto incredibilmente bassa la curva a breve dei tassi con l’acquisto di bond e altri asset a lungo termine. L’annuncio di un tapering lo scorso maggio ha determinato il balzo immediato della curva, calmierato tuttavia dall’annuncio da parte di Bernanke di un mantenimento dei tassi overnight bassi  per un periodo prolungato incentivando l’acquisto di strumenti a lungo per ottenere extrarendimenti, ottenendo cosi il risultato di mantenere sotto controllo anche la parte a lungo. Le nuove direttive da parte della Fed parlano invece di un controllo dei tassi a breve unicamente fino ad un raggiungimento del livello di disoccupazione inferiore al 6,5%. Poiché i mercati hanno anticipato l’arrivo alla soglia per il 2014, visto un miglioramento del dato al 7,4%, l’uscita dalla parte lunga è stata la diretta conseguenza della possibilità di ottenere ritorni più alti anche sulla parte a breve. Data un’inflazione attesa del 2%, il tasso d’interesse reale sui bond rimane tuttavia inferiore all’1%. Se quindi il livello dei prezzi si alzerà, il tasso d’interesse nominale complessivo dovrà salire a più del 4% per portare il tasso d’interesse reale almeno al 2%.

A minare l’incremento dei tassi d’interesse reale non è però solo l’aumento dei prezzi energetici ma anche il largo deficit di budget che vede il diretto scontro tra l’amministrazione Obama e la frangia dei repubblicani. Jack Lew, segretario del Tesoro Usa ha infatti da tempo lanciato l’allarme relativo alla possibilità di raggiungere il tetto dell’indebitamento fissato a 16700 miliardi entro metà ottobre, sorprendendo le attese degli analisti che posticipavano la resa dei conti ad almeno fine anno. Secondo il Segretario rimarrebbero poi unicamente 50 miliardi per onorare obblighi e pagamenti, già frenati da mesi attraverso il rinvio o la sospensione di alcuni versamenti, come i contributi pensionistici nell’attesa di un miglioramento dell’economia. Rema tuttavia contro le più rosee prospettive il dato proveniente dal settore immobiliare, con un indice Case Shiller Home Price in rialzo di oltre il 7% nel secondo trimestre del 2013 rispetto al primo. Dopo i numerosi shock a cui è stata sottoposta l’economia americana negli ultimi anni, gli investitori internazionali stanno quindi per la prima volta mettendo in discussione la possibilità di continuare ad investire sui listini americani alla luce della dubbia capacità da parte delle finanze a stelle e strisce di assorbire un ulteriore colpo.

EMERGENTI IN CADUTA LIBERA

Stesso sentiment contrastante per le piazze emergenti. La loro forte dipendenza dal mercato Forex in virtù della quotazione in dollari di buona parte degli input utilizzati ha determinato, nella corrente fase di forte rialzo dei tassi d’interesse statunitensi, un generale crollo delle rispettive valute, ancora più affossate da un incremento del livello dei prezzi. Prendiamo il caso dell’India, in attesa dell’insediamento di un nuovo governatore della Banca Centrale. Il rialzo del Brent verso i 117 dollari ha portato l’asticella del greggio convertito in rupie indiane sui massimi assoluti andando ad affossare una bilancia commerciale già indebolita da una perdita di valore della valuta locale di oltre il 9% contro il dollaro nel mese di agosto. Se finora a pagare il conto più salato sono stati gli imprenditori, visti i bassi margini delle loro attività export oriented a fronte dell’incremento del prezzo alle importazioni, nonché parte dei loro passivi esposti in dollari, la fiammata delle quotazioni dell’oro nero sta ora mettendo a repentaglio anche le casse dello stato che gestiscono direttamente le scorte di carburante. Gli effetti di una simile svalutazione sono già passati all’economia reale. La crescita del Pil è infatti sui minimi da marzo 2009 mentre i dati relativi al settore manifatturiero di agosto, con un valore al di sotto di 50, ovvero 48,5, lanciano un segnale d’allarme sulla contrazione del comparto industriale.