PUNTO E A CAPO

La “Manovra di Ferragosto” e i redditi finanziari

Il 17 settembre scorso, ha preso vita la rivolta copernicana della tassazione dei redditi finanziari, tassazione che finora aveva rappresentato uno dei principali elementi tenuti in considerazione nella strutturazione di prodotti finanziari innovativi e nelle scelte di investimento del pubblico. In tale data è stato infatti pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella legge 14 settembre 2011, n. 148 che ha modificato significativamente il regime di tassazione dei redditi (di capitale e diversi) di natura finanziaria.

 In primo luogo, le aliquote delle imposte sostitutive o ritenute alla fonte prelevate su tali redditi, fissate al 12,5% e del 27% a seconda della natura più o meno speculativa dell’investimento, saranno sostituite a far data dal 1° gennaio 2012 da un’aliquota unica del 20%. Nelle intenzioni del legislatore questo cambiamento dovrebbe comportare un incremento del gettito; infatti, in particolare, si registra un aumento della tassazione sui dividendi derivanti da partecipazioni c.d. non qualificate e sugli interessi derivanti dalle più comuni obbligazioni. La Manovra di Ferragosto risulta aver così significativamente inciso sulle più frequenti forme di risparmio. Restano, però, escluse da tale aumento le obbligazioni e altri titoli del debito pubblico (titoli di Stato ed equiparati, tra i quali, anche quelli emessi da enti territoriali ed i buoni postali fruttiferi); le obbligazioni emesse da Stati c.d. White List; i titoli di risparmio per l’economia meridionale ed i piani di risparmio a lungo termine appositamente istituiti.

 L’introduzione dell’aliquota unica sui redditi di natura finanziaria, ivi comprese le plusvalenze, deve considerarsi positiva almeno nella parte in cui, di fatto, rende ormai irrilevanti le numerose questioni classificatorie che si ponevano nella vigenza del previgente regime. Fino ad oggi, e comunque fino al 31 dicembre 2011, un titolo poteva essere ricondotto alla categoria dei titoli similari alle azioni, a quella dei titoli similari alle obbligazioni o a quelle dei titoli atipici in quanto a ciascuna di tali categorie corrispondeva un regime fiscale differenziato. Ora ciò non è più necessario in quanto tutti i titoli finanziari, ad eccezione delle azioni che attribuiscono una partecipazione qualificata (nel senso fiscale del termine) in una società, sono assoggettate alla medesima aliquota. Ciò indubbiamente contribuisce a semplificare le informazioni che devono essere fornite agli investitori nei prospetti informativi, con ciò eliminando una fonte di possibili equivoci.

 Peraltro tale intervento deve essere coordinato anche con le modifiche apportate all’imposta di bollo sulle comunicazioni relative al deposito titoli. Il suo ammontare non risulta più differenziato  esclusivamente in funzione delle periodicità dell’invio delle comunicazioni relative ai depositi titoli, ma anche in funzione di alcune soglie di valore dei titoli oggetto del deposito. Tale imposta, dal “sapore” di surrogato di un’imposta patrimoniale, risulta particolarmente penalizzante per coloro che sono titolari di più depositi titoli presso diversi intermediari finanziari e di depositi di valore elevato.

 Tale rinnovato contesto normativo potrebbe determinare un mutamento nelle scelte degli investitori. All’investimento in titoli strutturati, in futuro soggetti ad un’imposta del 20% (in luogo dell’attuale 12.5%) e ad un’imposta di bollo commisurata all’ammontare complessivo degli investimenti, si potrebbe preferire l’investimento in conti di liquidità, soggetti ad un’imposta del 20% (in luogo del 27%) e ad un’imposta di bollo commisurata alla periodicità delle comunicazioni (anche annuale).

Gli investimenti a breve, inoltre, non saranno più’ svantaggiati rispetto a quelli a medio e lungo termine, mentre gli investimenti in fondi comuni – anch’essi soggetti all’imposta sostitutiva del 20% in capo agli investitori persone fisiche non imprenditori – non saranno soggetti alla sopra ricordata imposta di bollo.

 Altra opzione, ora altamente appetibile per i risparmiatori sotto il profilo fiscale, sarà l’investimento in titoli di Stato; le ragioni della scelta del legislatore di non penalizzarli sono fin troppo evidenti.

Sembrerebbe quindi che il legislatore abbia voluto disincentivare l’investimento in quegli strumenti che da alcuni anni sono indicati quale causa della recente crisi finanziaria favorendo la “capitalizzazione” delle persone fisiche che da “investitori” potrebbero tornare “risparmiatori” da “salvadanaio”.

 Rubrica a cura di Hogan Lovells